Saturday, 04 June 2011

The Eyes of the Tiger

The Eyes of the Tiger
di Laura Gotti Tedeschi

Dopo cinque anni di filosofia, passati a discutere duemilacinquecento anni di fondamentali problemi esistenziali, epistemologici, ontologici, antropologici, etici, uno degli insegnamenti più illuminanti per la mia vita l’ho trovato nel film Una donna in carriera. E’ bene che lo sappiate subito: forse non scriverò un solo post che non abbia almeno un riferimento/citazione/consiglio di origine cinematografica. Questo non perché non vi siano fonti molto più autorevoli, cinque anni di Liceo Classico e altrettanti di Università si suppone che ti lascino qualcosa di un po’ più profondo, un segno di distinzione, una cultura più elevata rispetto alla media, almeno qualche vago ricordo di chi fosse Omero e dove si mettesse l’accento (insomma, giuro che non ho sempre copiato dalla mia compagna di banco Francesca, anche se ha avuto un ruolo salvifico in numerose occasioni).

Trovo però che molti film abbiano il pregio di mostrare situazioni più o meno realistiche e di sintetizzare concetti chiave che diventano spunti di riflessioni profonde, per chi è capace di coglierli o per chi, come me, cadrebbe in una specie di autismo vedendo delle metafore esistenziali anche nel procedimento di autolavaggio della macchina. Ma torniamo a questo bellissimo film.

La protagonista, Melanie Griffith, è una segretaria che vive nei sobborghi di New York sognando Manhattan, nutrita dalla sana ambizione di poter realizzare di più le sue capacità, non accontentandosi di un lavoro modesto che le richiede compromessi inaccettabili, di colleghi che le mettono i bastoni tra le ruote e di un fidanzato fedifrago. Così, confidando (solo) in se stessa, nel suo spirito di sacrificio e nella sua determinazione anche senza una laurea ad Harvard, si mette d’impegno, frequenta corsi serali, studia, legge (“Io leggo di tutto, non si sa mai da dove possa venire una grande idea”) e, con gli occhi della tigre, aspetta di cogliere l’occasione giusta per far fruttare tutte le conoscenze da autodidatta e le capacità. L’occasione arriva, e la protagonista la sfrutta alla grande, fino ad arrivare a far licenziare la sua capa plurilaureata ma di un’ambizione spietata e disonesta, a fregarle il posto e pure il fidanzato (un Harrison Ford al top, da svenimento istantaneo, non so se mi spiego).

Ora, questo che ho descritto non rappresenta proprio un esempio di santità cristiana, i veri modelli di vita sono altri, non si trovano nei film ma nella realtà, e nella realtà Harrison Ford è buddhista e ha l’orecchino, quindi, visto che ritengo non si possa vivere senza esempi da seguire, bisogna certamente cercarli altrove. Comunque, anche da un film così si può imparare qualcosa di buono (non solo che non si possono spendere cinquemila dollari per un vestito che non è nemmeno di pelle, come osserva acutamente la saggia amica della protagonista), cioè che noi non siamo quello che facciamo ma facciamo quello che siamo. Non è un gioco di parole ma una verità che ci appartiene e che ci è stata rivelata dall’esempio per eccellenza, Gesù Cristo. L’uomo è finalizzato alla perfezione, e questa la può ottenere attraverso la libertà che gli è stata donata con la vita. Ma la perfezione non è certo quella che ci promette qualche scienziato illuminato, di vivere fino a 120 anni (ma chi gliel’avrà chiesto poi?) senza malattie, senza dolore, senza sofferenza, belli, felici, liberi di fare ciò che vogliamo senza i sensi di colpa che ci fa venire la religione (cattolica, ovviamente!).

Peccato che “i sensi di colpa” sono quelli che ci ricordano che abbiamo anche una coscienza oltre che un corpo e un cervello (questo oltretutto non sempre ben sviluppato, ho giusto qualche esempio in testa) e questa coscienza ci ricorda che il bene e il male esistono e indicano rispettivamente ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare, che la perfezione è una continua ricerca interiore ad essere pienamente se stessi nelle attività di tutti i giorni (sì, anche nell’andare a buttare la spazzatura ci vuole una certa dignità, o almeno un po’ di mascara, non si sa mai che incontri l’uomo della tua vita mentre butta la plastica nel bidone giusto, e pensi “che sensibilità ecologica che ha!”).

Dobbiamo avere gli occhi della tigre rivolti verso il mondo, consapevoli di essere di più di quello che facciamo, e rivolti verso il cielo, consapevoli di Chi non potremmo fare a meno. Chi siamo è scritto dentro di noi, non nei geni (sennò staremmo freschi, non so voi ma i miei antenati non erano proprio Leonardo Da Vinci e Madre Teresa di Calcutta) ma nella nostra anima. Per dirla col Beato Giovanni Paolo II, bisogna diventare ciò che si è. Le scelte si fanno dopo aver pensato, valutato, gerarchizzato i beni in gioco e le priorità, non perché si è seguito l’istinto del momento, ma perché si è seguito Cristo, il quale, consapevole di averci creato forse un po’ troppo tonti e duri di comprendonio, si è dovuto incarnare, venire in mezzo a noi a ricordarci nel modo più chiaro possibile “Io sono la Via, la Verità, la Vita”.